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L'ETERNO RITORNO


L'ETERNO RITORNO

Un'influenza, o qualcosa che le assomiglia molto, la prima della stagione (e vorrei sperare l'ultima) serve ad ascoltare i tuoi vuoti, il silenzio che ti mangia dentro dopo giorni di corse convulse, di incontri, di appuntamenti e impegni e promesse... La sera del teatro l'ho preparata così a lungo, le situazioni prima e dopo non hanno richiesto meno attenzione, a me piace vivere così. Certo per quel narcisismo che, potendolo liberare, tutti scopriamo di nutrire, perché ci strappa alla nostra disperazione. Ma, più di quello, molto prima di quello, per la possibilità che questo vivere mi offre di intercettare persone, di stringere legami, o di andare a rispolverare quelli che si erano un po' allentati. Per me ogni serata, ogni spettacolo è conoscere chi mi scrive, o ritrovarlo, sono abbracci, sono intimità riscoperte e non c'è davvero niente di retorico in questo: vorrei solo che sentiste i miei fedelissimi di domenica, a Pescara: succede sempre qualcosa, e stavolta, tra i tanti momenti, ce n'è stato uno che per poco non coinvolgeva... Federico Moccia (lo so, la vita è strana)!?!
Dopodichè, cala il silenzio. Il lavoro lo riscopri più improbabile e incerto di ieri. Le aspettative spesso muoiono. La vita è più gravida di ricordi e meno leggera di attese. Devi ricordarti che non sei nessuno, che non hai fatto niente. Che vivevi delle tue fantasticherie. E, come dice la canzone, “accade che la ragione ha il sopravvento sopra ogni illusione...”. Devi ricominciare da capo, a cercarti possibilità, a ricostruirti presupposti, pezzo per pezzo, come un meccano delle intenzioni, come un lego della speranza. E ogni volta è più dura, perché la tua età non è più fresca, per quanto tu ti sforzi di non farlo pesare nella tua dimensione pubblica. Ogni volta è meno probabile, perché tu non hai manager, hai solo te stesso, la tua disperata volontà, il tuo indomito ottimismo, malgrado tutto. E i manager, gli agenti, sono solo quelli che ti seguono, e ti cercano, ti chiamano, ti vengono a sentire. Vivi per un loro messaggio, per un riscontro, e non c'è niente di retorico in questo. Tu sai come ti salva, quel loro cercarti.
E allora ti senti stanco e non è l'influenza. È un morbo dell'anima, che non guarisce, che può solo peggiorare mentre diventa endemico. Non si può sempre ricominciare da noi stessi, non si può essere in eterno gli elastici di noi stessi. La sera prima eri lì a divertirti e divertire, ti fanno l'applauso pure se ti alzi e annunci che vai a pisciare. E adesso sei qui e l'unica voce è il silenzio. Anche il tuo. Questo battere sui tasti del computer, che somiglia a una scheletrica marcia funebre.
Perdonatemi per questo sfogo, lo so che non dovrei. Ma vi ho abituati davvero a confidarvi tutto di me, proprio come voi mi affidate tanto dei vostri giorni, compreso quello che agli altri non raccontate mai. Neppure al vostro sangue, a gente nella quale vivete. Non siete pubblico ma essenza, voi che non vedo, e quando la vita mi fiacca non posso prendere un telefono ma solo tornare qui, ad un blog, e sommergerlo della mia angoscia, sperando che qualcuno capisca, che, magari, si accorga che è anche la sua, e che non c'è niente di mortificante nell'ammettere: io sono solo, io sono ferito.

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