Passa ai contenuti principali

ITALIANI, CHE RAZZA DI RAZZA


ITALIANI, CHE RAZZA DI RAZZA
Ci sarà andato anche giù duro, il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, ma di problemi ne abbiamo già tanti, e qualcuno perfino d'importazione: invece Der Spiegel non trova giorno migliore che quello della Memoria, contro l'Olocausto, roba loro, tutta fatta in casa, per marchiare l'Italia con un epiteto che gronda disprezzo etnico: “Non sono una razza”, dicono di noi. È vero: siamo bastardi, di fuori e di dentro, siamo un crogiolo di razze, meticci come pellirosse, o mulatti, o gitani, il che, se non altro, ci allontana mediamente da certe tentazioni: abbiamo nel sangue 1500 anni di invasioni, contaminazioni, stratificazioni, e, se non bastassero, siamo stati i primi ad andarci a incasinare alla rovescia, in altri angoli di mondo. Le nostre città sono ricettacoli di storia, polveriere e ostelli di genti, siamo impastati di opportunismo e compromesso, siamo i nipotini deformi di Machiavelli. Da cui lo scarso senso dell'appartenenza, come ci rimprovera Der Spiegel, ma, se non altro, una certa adattabilità condita con sugo ed ironia. Ci vergognamo, spesso, di noi stessi: qualche volta in modo perfino eccessivo. Che volete, è il nostro modo, sgangherato fin che vi pare, di sorvegliarci. In compenso, non andiamo mai troppo fieri di noi stessi, rischiando di riscoprirci ridicoli: davvero c'è qualche popolo, o Stato, che può stabilire coordinate etiche, per quanto virtuosa sia la sua economia? Davvero sopravvive in qualche nazione il culto, delirante e pericoloso, della supremazia? Così debole è la memoria, infine?
Si sa, giochiamo in contropiede (e qualche volta funziona, ricordate?). Anche quando ci auto-sfottiamo, resta sempre qualcosa per chi ci sfotte: avete presente il nostro povero Fantozzi in clinica dimagrante, sprezzato dal professore teutonico di turno, “Tu, taliano, sempre mancia spaghetti e suona mandolino!”: chi è, in fondo, che fa più ridere? E, per quanto cialtrona sia la nostra razza giornalistica, sarebbe difficile trovare su una nostra testata un simile insulto collettivo. Tra l'altro, si ha come l'impressione che un certo servilismo verso il potere, anche dalle parti della Grande Germania non manchi: che senso ha, un simile editoriale, se non quello di compiacere una Cancelliera che sembra pensarla allo stesso modo?
Di motivi per mortificarci, state tranquilli, ne troviamo da soli. La stessa vicenda della nave ballerina, il nostro piccolo Titanic, che avete sfruttato per tatuarci meglio, è una storiaccia maledettamente italiana, compresi gli striscioni in favore del comandante fellone. Ma se l'Italia si riducesse completamente a questo, se non ci fosse chi sconta con dignità la sua pena di vivere, e vivere ragionevolmente pulito, non credete che il Paese avrebbe già sbaraccato da tempo, anziché volare, come il calabrone, contro tutte le leggi della fisica? Si vede che qualche risorsa, anche di dignità, la difendiamo ancora. E senza neppure scomodare le famose sfide calcistiche, perché, si sa, tra buoni amici un po' si vince e un po' si perde.
Insomma: da noi non potevano fiorire Hegel e Fichte, tantomeno Kant, e non parliamo di Bach, Mozart e Beethoven: ci consoliamo con Dante e Leonardo, Michelangelo e Caravaggio, Leopardi e Lucio Battisti. Del quale ritorna in mente una meravigliosa canzone, tragica e postuma, “Il paradiso non è qui” si chiama, il testo ovviamente lo scrisse Mogol. L'avverbio di luogo va a conficcarsi proprio in Germania, dove un nostro immigrato è finito a lavorare e da dove manda all'amico rimasto in patria lettere di commovente strazio: Amico mio, il paradiso non è qui... qui c’è lavoro e sopravvivere si può ma un’altra lingua un altro modo di pensare  se non ti abitui è anche facile morire... Per questa gente noi siamo quelli del salame  e per cognome qui ci chiamano spaghetti prima di noi c’è stata troppa gente infame per cui son buoni solo ancora dei corretti... io qui E tu là! Cos’ho fatto Marì? Ho paura d’averti perso scrivi per carità...
Cari amici tedeschi, questa è una piccola cosa, come può esserlo un canzone (di 30 anni fa, ma ancora così attuale). Però se la ascoltate bene, parole e musica, chitarra e voce, forse capite che è qualcosa in più di un luogo comune: è un piccolo, meraviglioso scrigno che contiene tutto il disincanto e il sole, il vittimismo e la nobiltà, la rassegnazione e la disperata speranza di un italiano, un italiano vero. Voi, cari amici tedeschi, riuscireste a fare qualcosa di simile in tre minuti?

Commenti