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SULLA PELLE

M'importava solo dei sogni

SULLA PELLE
Mi lasciate fare un po' di similproust? Complice la mezza stagione, che incredibilmente quest'anno pare esserci, ho tirato fuori il mio vecchio giubbotto nero di pelle – non sto a farla tanto lunga, oggi non lo comprerei, ma è davvero vecchissimo e io non posso permettermi di sostituirlo con un politicamente corretto capo in ecopelle. Profumava, ma non di pelle. O meglio, quella pelle profumava della primavera del 1979, e chissà perchè proprio quella. Per essere precisi, più che di primavera profumava della Pasqua del 1979, eravamo scesi qui al mare, le diapositive, da qualche parte, le ho ancora, eccomi là, perplesso sul bagnasciuga, col mio primo giubbottino nero di pelle che mi cascava malissimo, improbabile Fonzie ginnasiale (se c'era un tipo improbabile, ero io, patetica fusione di Potsie e Richie). Quel profumo non è mai andato via dalla mia mente e sa ancora di sole, di acqua marina, di estate che già intravvedevo, e sa di adolescenza assurda e spaventata, e sa di plastica polverosa del negozio di dischi: smaniavo, tormentavo mio padre perché mi portasse a Fermo, al negozio Discolandia e qui, da un suo vecchio amico d'infanzia, presi la cassettina di EroZero e il gestore mentre me la porgeva cantava “Bella la vita..., ti ricordi Albè, quante me n'hai date da ragazzo?”. E poi quella cassetta ebbe un destino, ma proprio denso, la consumai a forza di passarla e ripassarla nel registratore, ci andavo in giro con mio padre in furgone, una volta a tarda sera lo accompagni all'aeroporto di Linate a prendere dei giapponesi che arrivavano, non l'avevo mai visto l'aeroporto di notte, tutte quelle lucette rosse nel cielo, le scie che indovinavo d'aerei che scendevano e salivano, tutta quella gente frettolosa dentro, 1979, niente postazioni per internet, niente computer ma un'altro tipo di modernità, ancora più clamorosa perché tutta da scoprire, ed io ci stavo dentro, ero un ragazzino, mi sentivo impreparato a tutto ma ne facevo parte, tornavamo coi giapponesi in macchina e la tangenziale era anche quella un pezzo di futuro, un nastro d'asfalto che mi portava al mio domani, ero bombardato di sensazioni che s'incidevano in me e non mi avrebbero mai lasciato, addirittura intontito di vibrazioni in certi momenti, un'antenna che captava tutto, a me importava solo dei sogni e di Rivera che stava per salire in cielo a portarci la sospirata stella del decimo scudetto. Tutto brillava nella notte.
E mi piaceva, se potevo, imboscarmi nei pranzi di lavoro di mio padre, a patto che si andasse in un certo ristorante vicino casa, perchè io ero il mio quartiere, e che si potesse mangiare fuori, ma fuori davvero, sul marciapiede dietro la cortina di siepi che ci separava dal traffico ma non dai suoi odori, dai rumori, dallo scintillare dello stesso sole che ho visto stamattina, in Vespa e tutto m'è tornato in mente, anche quel profumo di cibi forti del ristorante che si mescolava ai gas di scarico dei motorini, dei pullman arancio che spianavano via Porpora, delle piante con l'asma di piazza Gobetti lì a due passi, di quel formidabile odore di erba bagnata in mezzo all'asfalto, come un orgoglio di natura, un permanere della vita vera a dispetto delle nature morte del cemento. E quella cassettina io ce l'ho ancora e con sgomento mi accorgo d'averci inciso sopra la mia voce ancora acerba insieme a quella di mio padre, praticamente un mix insieme a Renato che scatenato gorgheggiava facciamo un Baratto sull'aria dell'”Amami, Alfredo”.
Tutto resta depositato in me, pronto ad esplodere alla prima occasione, il sospetto di un aroma, un baluginio nell'aria. A pensarci bene, ecco perché non lo giubilo il mio vecchio giubbotto nero di pelle. Non è la coperta di Linus, è un medium, una porta per le sensazioni, un'autostrada per il passato, quando ero infelice, sì, capivo che lo sarei stato tutta la vita, ma col sospetto che qualcosa di grande, di meraviglioso e folle sarebbe piovuto dal cielo a salvarmi.

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