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IL MIO BULLISMO


M'imbatto nel libro di Mario Giordano “5 in condotta”, una inchiesta tragicomica, ma più tragica, sul mondo della scuola. La comincio quasi divertendomi, poi passo all'insofferenza, quindi mi ritrovo nella rabbia e nell'angoscia: siamo al capitolo sul bullismo, sui troppi studenti torturati dai compagni, qualcuno non ce la fa e si lascia cadere, nella totale indifferenza, omertà, a volte perfino complicità dei professori che non vedono, non intervengono oltre il lecito e pure l'illecito. Ragazzi crocifissi perché gay (veri o presunti), perché ebrei o semplicemente non alla moda, sfigati, brutti. Ragazzi che, se non si uccidono, subiscono danni psicologi irreversibili. Uno, scopro, si è cancellato perché, sangue misto, non sopportava più di essere chiamato “il cinese”: e non riesco a non ricordarmi del mio bullismo. A 14 anni, in quarta ginnasio, ero un ragazzino buono e diligente, spaventato, che dimostrava meno della sua età: inevitabile che i più grandi mi terrorizzassero un po'. Ma a bruciare non erano tanto le pressioni fisiche, i colpi, le minacce se non baciavo in ginocchio l'immagine di santa Rita (risolsi chiamando un amico più grande con la faccia giusta). Erano le ossessioni sul fisico. Per tutta la prima parte del liceo, fui “picchio”, quello col nasone deforme.  Battiato, Pippo Franco, ma soprattutto “Picchio”: millecinquecento voci si passavano quel soprannome, ma che dico, di più perché ci si impegnava anche qualche professoressa (più che democratica, comunista, sensibile alle foglie e alle “ragioni delle Brigate Rosse”: ero di famiglia intollerabilmente piccoloborghese). Poi venne il turno del “terrone”, in omaggio alle mie radici marchigiane. Terrone con l'Alfaterron, terrone con la giacca di pelle dell'ATM (l'azienda tranviaria milanese, i cui controllori sfoggiavano quel capo), terrone di merda, terrone e basta. Qualsiasi cosa facessi era marchiata da quell'epiteto, in sé non così grave ma capivo che non era tanto per ridere, c'era dell'odio e del disprezzo sotto. Si estendeva a mio padre, a quello che eravamo. Tre anni di liceo, ogni giorno per cento volte, compresa la maturità, da tutta la classe, da tutta la scuola, senza eccezioni. Anche dalle ragazze. Anche dopo. Quando sono venuto via da Milano, mi mandavano a chiedere: che fine ha fatto il terrone? E ho aspettato una vita, ma ho ricacciato in gola a quasi tutti quegli insulti. Uno, in particolare, rachitico e deforme, frustrato e quindi maligno, che non ricordava una sua caricatura nella quale mi impiccavano per il naso (ero contro la pena di morte). Gliel'ho ricordata io, più di 30 anni dopo, benedetta internet, e non si è più ripreso. Altri hanno avuto la loro paga di recente. Non ho mai dimenticato, perché è vero che certe ferite, nell'anima, nella mente, sono inguaribili se ti squarciano da bambino. Ti renderanno un uomo peggiore, spietato. 
Ma se qualche ragazzino per caso legge queste parole, vorrei dirgli di non cascarci. Sembra retorica, ma sul serio i più stronzi sono i più deboli: tutto quello che devi fare è resistere, e non giustificarti mai di quello che sei. Mai. Adesso ti senti soffocare, ma è quello che vogliono. Un giorno poi, verrà il tuo giorno, e non sarà un bel giorno per tutti loro. Credimi.

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