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RAMAYA


L'ultima volta sono tornato: non lo vedrò più. Apposta per farmi deludere, quando sei bambino tutto ti pare enorme perché dentro ci vivi poi la vita, scesa a stagioni sui capelli bianchi, grigi, ristabilisce le proporzioni, la realtà delle dimensioni. E così ho ritrovato in tutta la sua esattezza la definizione di Cesarino per il cortile: “un fazzoletto”. Un quadratino di cemento, quaranta anni dopo impermeabile all'entropia, perfino le stesse fioriere, il solito muro senza calce che separava dalla casa di là e dall'altra parte ci stava Fausto, il ragazzo del Leoncavallo ammazzato dai fascisti. Di qua nel fazzoletto cinque, otto, dodici bambini a crescere e non ricordo un minuto di noia, neanche un minuto di non amore. Io amavo Carla, perché il sentimento era definitivamente quello, ma tutti ci volevamo bene a rete. Troppo piccolo adesso, mi sento soffocare aggirandomi come una bestia in gabbia; Tony m'accompagna, profittavo di una libera uscita di tre minuti concessami dalla nuova custode, perché l'Alfredo se n'è andato da un pezzo. E lei non voleva, giustamente sospettosa allo sconosciuto che appare, fantasma, dal passato ma per tutta la mia latitanza ho incontrato la gente, troppa per non averla imparata e così scatta la franchigia: m'addentro; le siepi che delimitano, il gradino lungo, tutti noi come in piccionaia, mi sdraio a annusare le grate che filtrano, come allora, l'odore di smog su dai garage; quaggiù il golfo mistico della cappellina san Carlo dove scaraventarono il biciclo di Sandrina e si sa che erano stati il Giulio e il Versini, che poi finirà ammazzato dalla sua Laverda 350. Il golfo mistico è il posto col cancello dove leghiamo gli elastici, Roberta è la più brava, tornei fino a sera, alle mani battute dall'Alfredo, “a casa!”, “no Alfredo altri dieci minuti!”, “A casa, domani vedremo” e anche la nuova portiera compare e mi chiama: scaduto il limite dei ricordi, ma io, Cristo santo, ho ancora il tempo di un baleno, Muhammad Ali aveva smantellato la possenza inumana di George Foreman, a fior di pugni e di empie parole - “Fammi vedere qualcosa! Non otterrai niente!” e così scendevo in cortile carico di follia agitando le braccia magre e quel brivido di libertà non m'avrebbe mai sconvolto più di così: libertà eterna, dal tempo, nel tempo. Nessuno di noi era ridicolo nel fazzoletto e ho capito perché, pur così piccolo, non finiva: ma questo era solo la piazza principale del nostro privato rione, fatto poi di regioni, di rifugi, il retro del negozio di Cesare e Eliana, che usiamo per far prima, spesso carichi di ghiaccioli appiccicaticci, il vialetto coi massi e i gatti e le canne che pompano acqua sul prato, fino al muricciolo davanti al portoncino di vetro del mio palazzo (tre lotti in totale quell'enclave), che confina in via Montenevoso del rifugio brigatista, la storia a dieci metri, noi restiamo al di qua, sicuri nel limbo dove una volta piove e sotto una pianta ci rifugiamo io e Carla stretti in un solo bambino, ora non ricordo niente, sarà durato un'ora, ma la tempesta di baci quella sta al sicuro dentro me. Non si è mai asciugata. Nessuno di noi era perdente nel fazzoletto di ferro e cemento, le fioriere sterili ma utili, impossibile girarci in bicicletta ma ce n'erano quattro, dieci, se le madri s'affacciano possono toccarci con la voce, “Ma perché” chiedo delirando a Tony “io non m'arrampicavo su per il balcone per rientrare invece di far le scale?”, unico rammarico di quel nostro universo, ancora da venire la scoperta della musica, ma sì, giusto qualche 45 giri infilato nel mio mangiadischi, “Ramaya”, cazzo ma ve la ricordate Ramaya un pomeriggio intero?
La portiera mi trascina via, è tardi, è finita, ma si ferma a ascoltare, non resiste più. “Torni anche domani”?, no, stellina, domani vado via, io abito così lontano da qui.

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