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IL PIU' LEGGERO TRA I VILI


Non c’è rumore al cimitero anche se gli uccelli cantano. Non c’è chiarore al cimitero eppure il sole tutto accende. Ci sono questi volti morti, pietrificati per sempre dietro il marmo delle lapidi e fiori secchi e nomi anonimi. Li scorro mentre passo ed ognuno mi guarda, vuole dirmi qualcosa, un monito una preghiera: “Ricordati di me!”. Ma come posso, come, se non vi ho conosciuti? Come posso, se mi sento morto anch’io, tanto morto da ritrovarmi qui a trovarvi, per sentirmi in compagnia, tra gente come me?
Alle tombe dei nonni giungevo: mi fissano come al solito. Che farete, adesso, dove siete? Vi ricorderete, voi, di me? Avete preso nota delle mie infamie, o siete disposti a passarci sopra, così come siete adesso? Potete sentirmi? Potete sentire la mia disperazione mentre vi visito? Mentre vi cerco.
Malvolentieri soffrivo al camposanto, mi sentivo chiamato da tutti i suoi ospiti, “fai presto a raggiungerci!”, “ti stiamo aspettando!”, coro muto assordante come un volo di notte. Quand'ero fanciullo bastava varcare la soglia, il pesante cancello con quelle due scritte crudeli e beffarde, Il bene che il mondo ci dà, la morte ce lo toglie, Il bene che noi facciamo, la morte ce lo rende, per sentirmi sfinito. I cipressi esalavano quel profumo che a me toglieva l'aria, ci ripasso ogni giorno in Vespa andando a casa e quel profumo immutabile, perfino piacevole, è la carezza della morte. Mi sentivo mancare, un po’ morivo anch’io, la consideravo una violenza alla vita che pulsava nel mio corpo bambino quella via crucis periodica a visitar vecchi morti, malati morti, ectoplasmi, ricordi. Dopo è cambiato: io andavo a cercarli. Non più bambino, più ragazzo, più giovane. Forse nemmeno uomo. Sconfitto, andavo a cercare un altro silenzio, non più quello che avvolge la mia inutilità, non più l’ovattato frastuono dei ricordi ma la desolata vicinanza di chi ha sofferto, deve aver sofferto, tant’è vero che è morto. Loro possono capire cosa si decompone in un uomo ormai arreso, perché non trova più anima viva a farlo sentire vivo. Di nulla mi sento degno, vorrei trovare la forza di ascoltare questi muti richiami, “fai presto!, t’aspettiamo!”. Fuggire via, il più leggero dei vili; e scaccio dalla mente la tentazione di sparirmi. Il sole abbacina ma è così buio al cimitero, nei piccoli gorghi d’ombre tra i fornetti incompleti, bocche da riempire, al loro posto scritte di morti freschi col gesso sul cemento, lumini che brillano assurdi nel fulgore d’un pomeriggio d’estate lattea, fontane che sgocciolano, vasi di fiori morti rovesciati, un gran puzzo d’acqua marcia, ali in costruzione, non terminate, forse la morte ha sorpreso anche loro, voci di vecchie nere arrancano da un corridoio, “Eh no? Eh no?”, parlano animate come fosse al mercato, i vecchi non hanno paura dei morti, ci vengono come me, per stare in compagnia e container di latta verde e gialla arrugginiti, inutili come me e scale di legno, e altri lumini, altri fiori, altri volti e volano discorsi, rimorsi, sollievi ma nessuna voce parla se non quella degli uccelli. Api, insetti disperati puntano la mia faccia, li schivo a malapena, continuo a trascinarmi nei corridoi farciti di tombe, le facce non cessano di sfilarmi davanti, facce di un altro secolo, morti vecchi o bambini, facce da contadini, nasi schiacciati, orecchi deformi, sguardi spenti, stupiti, inespressivi o accesi, stagioni, vite trascorse come acqua di fiume, come pesci nel mare e poi le date, certe date magiche, cabalistiche, terribili, chi è nato nel ’66, morto nel ’99, a 33 anni, chi si chiamava “Trentuno”, nato nel Sessantuno, morto nel Novantuno, quei numeri sono lì a dimostrare che la vita è già decisa, tra i nostri sforzi vani la vita è solo scherzo, scarabocchio annoiato d’un dio sfaccendato e noi quaggiù a dannarci, trentuno sessantuno novantuno, così si diverte il destino, tretre seisei novenove, in mezzo ci sta l’inutilità di sperare, di dannarsi di soffrire, perché nessuna combinazione può essere così macabra, così crudele, nessun caso può giustificare il mistero di una vita così decisa, così programmata nel suo sorgere e sparire, con esattezza matematica, con dentro tutta la fatica, l’infinita fatica, l’inutile fatica che ogni respiro porta con sé. Hanno facce sorridenti gl'ingiuriati dalle date, non sospettavano d’esser beffe viventi, non sapevano che la loro morte non sarà tragedia, solo un piccolo maligno gioco per divertire qualcosa o qualcuno, per annichilire chi resta e un brutto giorno sbatte davanti ai numeri, ai multipli e si chiede se questo mistero che chiamano vita non sia uno specchio deformante, un’illusione prospettica, non siamo mai nati, mai vissuti, abbiamo solo occupato un po’ di spazio, consumato un po’ d’ossigeno, ma non eravamo noi, era il nostro pensiero che fingeva d’esser vivo.
Mi trascinavo fuori provando qualcosa più terribile ancora: la vertigine di quando ne uscivo per mano a mio padre e adesso invece ero solo, nessuna mano forte mi riportava dall'incubo, indietro alla vita viva, immortale e sicura, ai giocattoli e al mare, al mondo così piccolo, popolato da persone amiche, un mondo dove non si moriva e non si soffriva.
Quanto è passato? Secoli, minuti? Non ce l'ho fatta più a tornare dal cimitero, non ci sono tornato più. Non ti ci ho portato neanche a te, la tua cenere fresca riposa in camera di mamma. Ma lo sfioro passando il camposanto. Non cessa di chiamarmi la voce di cipressi. Oggi mi sono fermato nel piazzale, è il 21 di giugno. Crudele che il primo giorno dell'estate sia il più lungo e radioso, poi comincia a spirare. Il camposanto non si è mosso, ha sfidato e ucciso il Tempo ma io sono qui sconfitto, con tutti i morti addosso, con tutti i giorni addosso, cosa è successo, dimmi cosa è successo, dimmelo dal silenzio non lasciarmi così. Non lasciarmi qui.
Barcollando salgo sulla Vespa, l'accendo e scappo via più lentamente di quanto vorrei; mentre fuggo sbando, quasi cado e m'ammazzo, il manubrio va per conto suo.

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