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ZIO PASQUALE RIDEVA


Sono stanco, trentatrè volte stanco di sentire ripetere che al nord c'è la mafia, che Milano pullula di mafia, come se fino a ieri fossero vissuti tutti nell'Empireo. Libri, premi, ovazioni per qualcosa che non è neppure la scoperta dell'acqua calda, è giusto uno dei tanti business ricorrenti nel mercato delle notizie nate decrepite. Posso raccontare un aneddoto personale? È talmente remoto nel tempo che non so più quando collocarlo, comunque una quarantina – dico 40 – d'anni fa. Mio padre, ve l'ho già raccontato era uno dei tanti minuscoli commercianti-trafficanti di una Milano che ne brulicava, tutto un formicolio di contatti, di affari, di occasioni anche pericolose in un vitalismo caotico ed effervescente oggi impossibile perfino da raccontare; oggi c'è la rassegnazione tecnologica, ci sono i suicidi e il terzo mondo che tracima. Intorno al '74, '75 Milano era una fogna dove si pescavano anche pepite d'oro; e nessuno si formalizzava granché su chi si trovava davanti.
Mio padre, dunque, era uno dei tanti. Salito dalla profonda provincia marchigiana, che allora era considerata profondo sud, dotato di entusiasmo e parlantina un po' cialtrona, alla Berlusconi (dev'essere stato un tratto dell'epoca: erano coetanei), deciso a regalare un futuro alla sua famiglia e qualche piccola rivincita a se stesso. Trattava componenti elettronici, una varietà di insetti in ceramica multicolore con lunghe antennine di ferro che finivano inghiottiti dalle radio, le televisioni, i giradischi e gli altri apparecchi della modernità incombente. Io fui uno dei primissimi, in Italia, a vedere in casa un registratore a bobine, enormi, dove il nastro marrone scorreva misterioso e magico e un microfono poteva riprodurre, sorpresa!, la nostra voce. Per me poi era un doppio prodigio, dato che un'operazione mi aveva restituito corde vocali mai usate a causa della palato-schisi. Operato a tre anni, cominciai a parlare senza bisogno di scuole specifiche, si vede che proprio non potevo stare: e poi le parole son diventate il mio mestiere.
Fui tra i privilegiati anche a poter maneggiare un mangiadischi quando i miei coetanei neanche sapevano esistesse, ne ricordo due identici, uno rosso l'altro azzurro, “Pack Son” si chiamava, li facevano a Metanopoli mi pare, appena fuori Milano e lo slogan ingenuo sulla scatola con una ragazza bionda: “Music for your eyes”. Gingilli che finivano in casa proprio perché mio padre li corredava dall'interno, vendeva alle fabbriche i componenti che li facevano funzionare, e che adesso sono stati soppiantati dai microchip e dalla nanotecnologia. In uno dei miei primi spettacoli con Benvegnù, a Castelfranco Veneto, alla fine di novembre del 2007, ci capitò di esibirci al Buenaventura, un centro sociale che già stava per chiudere. Fu quando lessi per la prima volta un ricordo di mio padre, ancora vivo ma ormai in agonia. Dopo il reading Paolo fuggì via nottetempo, a finire il disco “Le Labbra”, io invece mi fermai a dormire al piano superiore, trovando un letto talmente male in arnese che chissà a quanti giri del mondo e naufragi era scampato. Uno di quelli con la radio incorporata nella testiera, puro kitsch anni '70. Guardo la marca: Europhon. Stava dalle parti dell'Idroscalo, ci andavo sempre con mio padre, quella radio nel letto portava ancora i suoi pezzi. Poche ore dopo lui mi moriva in mano.
Una vita prima, io stavo con lui, con mio fratello piccolo, con mia madre, tutta la famiglia insomma, in un rinomato ristorante di Milano, “Il Cenacolo” in via Archimede. Ricordo certi antipasti, certi sughi ai funghi ghiottissimi e micidiali. Così crescevo gioiosamente intossicato e nessuno mi controllava. Ricordo certe tavolate di lavoro che finivano a notte fonda e poi i pettegolezzi acidi di mia madre mentre in macchina tornavamo a casa. Ricordo cene omeriche e mio padre che fumava come tre camini. Ricordo i camorristi. Lui andava fino in Giappone per rifornirsi di transistor, resistenze, impedenzine ma in Italia a chi toccava toccava, li rivendeva a tutti. Capitavano pure dei bei soggetti. A volte venivano a cena con noi e con altri clienti di mio padre. Avevano pance enormi, cocomeri sotto la camicia azzurra che scoppiava. E facce terribili, i denti davanti così scollati che ci passava un pesce. Arrivavano, solennemente si sfilavano la pistola (calcio in madreperla, che meraviglia) dai pantaloni e la infilavano nella tasca della giacca. Se erano in vena di teatro, direttamente sul tavolo, insieme alle posate. Uno in particolare ce l'ho in mente, il capofamiglia nonché boss, che si chiamava, pensate un po', Pasquale Esposito, come dire John Smith a New York. Rideva molto, parlava con voce gutturale e ogni tanto diceva a mio padre: “Caro Del Papa, quando voi venite a Napoli, ci avete tutta la mafìa ai vostri piedi”. Non diceva camorra, diceva mafìa, con l'accento sulla “i”. E c'era stato davvero, a Napoli, mio padre, tornandone sconvolto: “Ma sai, Marisa, che là non contano i soldi, mettono delle mazzette da centomila sul bilancino e le pesano?”. Poi ci portava al cinema, a vedere i film di Piedone lo Sbirro e riconosceva i locali, i ristoranti in cui era stato e commentava: sì, sì, succede proprio così. Non so bene se con la “mafìa” ai suoi piedi, ma non credo se no una casa avremmo fatto in tempo a comperarcela, invece ha sempre lavorato come una bestia ed è morto povero, là dov'era nato, poverissimo, su un letto che si rompeva dopo una vita di dignitosa povertà consumistica ma niente di più.
Una sera al Cenacolo uno degli ospiti si era inghiottita cruda tutta la capa di un cipollotto e zio Pasquale lo trovava molto divertente, “Evandro!... Ha magnat' 'a testa da 'a gippòlla!” e giù risate che salivano direttamente dall'inferno. Il figlio sembrava Lando Buzzanca nella versione del pornazzo a fumetti. Con un naso come una vela sotto due occhi sporgenti e vuoti. Era un tipo particolarmente brillante, vedendoci lì annoiati e ipernutriti, io e mio fratello, che aveva tre o quattro anni, diceva a mia madre: “Signò, voi avrete pure dei bei figli, non dico di no: ma vedesse i miei!...”. E mia madre: “Ah, certo, ci credo, ci credo”. Un'altra volta zio Pasquale si mette in testa che quella sera lì bisogna mangiare tutti la pizza, decide lui, però essendo magnanimo ci concede di scegliere: “Pizza con le acciughe o senza acciughe?”. C'è pure un giapponese, tutto cerimonioso e zio Pasquale, che parla solo napoletano stretto, lo scruta: “E chisto chi sarebbe?”. “Si chiama Mister Yavata, zio Pasquale”. E il boss, ancor più cerimonioso: “Buonasera mister Chiavata” e gli fa l'inchino e ride con la risata dell'inferno, e tutti ridono con lui, meno il giapponese che non intende però abbozza perché ha capito l'unica cosa che conta, quando zio Pasquale si diverte tutti sono felici.
Cene micidiali per me, ma in certi momenti mi divertivo molto anche perché facevo i tormentoni di certi modi di dire o di atteggiarsi che notavo nei commensali; una mania che probabilmente è nata proprio in quelle sere estenuanti e non mi ha abbandonato mai più. Solo che, ogni tanto, nella mia testolina di ragazzino, davo un'occhiata al pistolone col calcio in madreperla e pensavo: qui va a finire che una volta o l'altra ci fanno fuori tutti e non è un film di Piedone.
Poi la mattina dopo, a scuola, io raccontavo ai miei compagni di zio Pasquale con il cannone sul tavolo e la risata da diavolo, ma loro non mi credevano.
Ho letto che Giorgio Bocca, prima di morire, era andato al ristorante e appena entrato, a colpo d'occhio, vedendo una tavolata in fondo alla sala aveva capito subito trattarsi di una cena mafiosa. Non doveva essere molto diversa da quelle serate noiose, fumose, allegre e pericolose. Anche se di mafiosi, anzi di camorristi, c'erano, che io ricordi, solo zio Pasquale e il figlio che sembrava Lando Buzzanca.
Mio padre era un uomo strano, non sono mai riuscito a definirlo fino in fondo. Moralista al limite del bigotto, un limite che invecchiando, e ammalandosi, aveva finito per oltrepassare senza ritorno. Ma pure spregiudicato, disinvolto, si era fatto la sua morale. L'ho visto sempre pagare, anche per gli altri, non transigeva sulle cose ultime, aveva il classico timor di Dio dei semplici, di quelli che pur girando il mondo restano dei provinciali. Però gli piaceva piacere e sapeva come farlo, aveva un istinto raffinatissimo per sedurre e siccome io lo sgamavo, e non glielo perdonavo, erano sempre mazzate fra noi. Era un uomo allegro ma col senso tragico, un narcisista generoso, capace di slanci enormi e letali ingenuità.
Mio padre esagerava di brutto, aveva un temperamento compulsivo ma senza il fisico bestiale e morì, fatto a pezzi da una sanità criminale più che per il cancro. Non ho mai conosciuto un calvario come il suo, durato 20 anni e una dozzina di operazioni una più sbagliata dell'altra (una volta gli lasciarono anche l'obbligatorio corpo estraneo nell'addome, ma poi i medici fecero camorra loro, l'un l'altro, e non fu possibile far niente. Anche perché i magistrati sono brava gente, tutti eroi ma la faccenda dell'obbligatorietà dell'azione penale è una battuta molto divertente, a pensarci bene anche geniale). Finché è stato sano, il mio vecchio non si è mai arreso alla vita. Ha sbagliato molto, è stato molto preso in giro, e mi ha trasmesso quella fottutissima ingenuità che troppe volte ha perso anche me. Adesso mi manca più di prima, anche perché mi sto accorgendo di perderne il ricordo, ne difendo solo un ricordo filtrato, differito, il ricordo di un ricordo, che va evaporando. Poi, ogni tanto, m'investe il suono della sua voce, un modo di dire, una smorfia del volto. Sono bagliori, evaporano come Polaroid, ma ho notato che invecchiando ricalco i suoi tratti.
Anche quella Milano là mi manca, ha ragione la mia amata maestra Benedetta, “era ancora bello il mondo e quell'angolo di Lambrate", dove tutti si incasinavano allegramente, persone per bene, mafiosi, zona grigia che poi era il tutto che animava la metropoli, quel dinamismo frenetico, quella feroce fame di vivere, e tutti sapevano che la mafia c'era e stava dappertutto, perfino noi ragazzini conoscevamo i locali proverbiali, come il “Ragno d'oro” dalle parti delle Varesine, coi guardiani con la pistola stravaccati a fumare nelle macchine davanti, ogni tanto una sparatoria e poche righe in cronaca. C'era tutto fin dagli anni Sessanta nella cintura infame dell'hinterland come in periferia, nei quartieri estremi della cinta urbana come in centro. Poi arriveranno i regolamenti di conti tra bande, come quelli tra Vallanzasca e Turatello, ma era una fase già conclamata. Vallanzasca avevo fatto in tempo ad incrociarlo, a Lambrate, la madre, che penso sia ancora viva, aveva una merceria in via Porpora dove mia madre si serviva e ogni tanto comparivano per un attimo quei due figli delinquenti, e si capiva che delinquenti lo erano sul serio. Turatello, che poi farà una brutta fine, aveva come vice Ugo Bossi, alla cui madre si diceva Berlusconi avesse fatto dono di uno dei primissimi appartamenti a Milano 2, prima ancora che quell'orrenda enclave per ricchi fosse ultimata e lanciata come città-modello.
Poi un bel giorno arriva Saviano e fa: ohi, a Milano c'è la mafia. Ma cammina.

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