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EPITAFFIO PER UN'ITALIA UCCISA



Non potendone più di tigì indigesti, mi rifugio in una provvidenziale retrospettiva di Sergio Endrigo. Fanno vedere gli stabilimenti della RCA, città della musica dove si fabbricavano carriere e capolavori. Poi arriva inevitabile "Io che amo solo te", quel salto di sesta incredibile e raffinato, quel dipanarsi del filo melodico, arabesco di nebbia, di smog, di dolore, quelle infinite sfumature di grigio del 1962. Hai voglia a dire, era un altro mondo, ed era bello. Era più bello. Me lo ricordo anche se sarei nato solo due anni dopo. Tutto sarebbe cambiato, ed io c'ero. Respiravo quell'entusiasmo, a volte triste, a volte feroce, fatto di gran derby, di canzoni e di benessere che saliva da un'Italia provinciale, crudele se vuoi, ma migliore di questa. Non ancora corrotta dentro, non ancora marcia. Perso nella folla di un mercato domenicale guardo i miei connazionali: sono passati dal provinciale al coatto, sono trucidi e truci, nessuno ha una faccia simpatica, aperta. Sotto i giocattoli - tatuaggi, occhiali, crani rasati - sono rimasti quelli di sempre, ma è come indossano la modernità a fare schifo. Non c'è più il senso di una dignità, di una decenza. Non c'è più l'istinto di un rispetto, di sè e degli altri. Gli uomini sembrano papponi, le donne portano addosso come una patina, una polvere, una volgarità da battone. Nessuno offre una impressione di fresco, di pulito. Era diversa quella Italia, ce ne lamentavamo, l'abbiamo crocifissa ai palazzinari, agli abusi ambientali, d'accordo, c'erano anche quelli, ma di questa Italia che rimane? La città della musica, la RCA, è un satellite cinese, tutto abbiamo lasciato decomporre, anche i derby parleranno cinese e non è solo la condanna della globalizzazione, non scherziamo, non mentiamoci, l'Italia se la sono spartita, a lacerti, tutti, dai tedeschi ai francesi ai russi agli inglesi agli americani ai cinesi ai turchi. Noi abbiamo ceduto le nostre rovine. Eravamo capaci di stupire il mondo, abbiamo perso tutto, rovinato tutto e l'abbiamo rovinato sapendolo, volendolo, con una politica infame e scellerata, con un orgoglio mortificato a lungo, che adesso rifiorisce solo in atteggiamenti patetici. Ci avevano convinto che tenere al proprio Paese, difendere la gente che eravamo, fosse anacronistico, fosse inaccettabile e squallido: che cosa abbiamo adesso? Abbiamo l'Italia laida di quelli che fanno a pezzi gli amichetti ai festini cannibali, di quelli che si vendono l'anima e le deiezioni, i cadaveri di famiglia e pure quelli provocati, raccontano con dovizia le loro ammucchiate, descrivono porcate con un narcisismo malato, l'Italia celebrata da Dagospia, santificata da D'Agostino. Guai restare ingenui, disarmati: lugubri e laidi bisogna essere, altrimenti dove vai, altrimenti non sei nessuno. Bel risultato, bel progresso. Già. Non ero nato ma ricordo l'entusiasmo che ci avrebbe accompagnato a lungo, che non si spegneva neppure sotto i colpi assurdi e terribili dei terroristi, rossi e neri. Poi, di colpo, ci siamo spenti da soli, come tante lampadine fulminate, abbiamo odiato le nostre intelligenze, i nostri artisti, abbiamo invidiato il talento, la genialità, li abbiamo scambiati con una sottocultura porca, lurida, pornografica e drogata, contrabbandata per nuovo sapere, per nuova coscienza. Ci siamo vergognati dei campanili, delle piazze, del sole, perfino delle nostre fabbriche, delle città, dei viali, dei tavolini all'aperto. Mostri, le chiamavamo. Giungle d'asfalto e di alienazione. Balle, io a Milano ci crescevo e tutti, ricordo, erano contenti, qualcuno addirittura felice. Anche disperati, ma eccitati sempre, pieni di obiettivi, di frenesia, di fiducia. Ma ci hanno insegnato a maledire tutto, dovevamo odiare tutto, detestare tutto, con una tigna carogna, con una meschinità da scemi che qualcuno spacciava per poesia. E invece era il canto dei mediocri, il gracchiare dei corvi invidiosi e cattivi, che poi si sarebbero imposti: per fare cosa, per creare cosa? Non abbiamo rimediato ai guasti, abbiamo rovinato il buono e il bello, ci siamo giocati fino all'ultima innocenza. Niente sopravvive, come Paese non esistiamo più, siamo il popolo più depresso e più cattivo che si possa trovare, provinciali di sempre, coatti di mai. Che schifo, all'epoca, che pena essere per bene, che qualunquismo essere dei borghesi qualunque, con dentro quella convenienza sociale che teneva insieme la società. Vuoi mettere adesso, che al minimo pretesto si degenera nelle coltellate? Vuoi mettere un raglio senza storia con quelle canzoni figlie di un momento cancellato, maledetto, ma che non finiamo di rimpiangere? Endrigo canta la bellissima elegia, "Io che amo solo te", ma se la cerco su internet trovo solo uno stupido filmetto con una cantante da talent che rovina quella poesia del 1962, quando una estate era un miracolo, un privilegio su un balcone. Adesso non ci basta mai niente, ma non abbiamo più niente, solo la nostra miseria dentro, che è peggio di qualsiasi sacrificio. Sapevamo prendere il bello del mondo e renderlo più bello, più originale, più italiano: si vede che era un crimine, ce ne siamo vergognati fino a non saper fare più un cazzo. "Io mi fermerò/E ti regalerò/Quel che resta/Della mia gioventù...". A risentirlo adesso, sembra un epitaffio.

Commenti

  1. Era una delle canzoni che da piccolo mi faceva ascoltare mia madre mentre rifaceva i letti, cucinava. Quando arrivava l'estate, e io e mia sorella non andava a scuola, tendeva ad alzare il volume del mangiacassette. Endrigo, Battisti, Mina, Vanoni, Tenco, Califano da mia madre. E poi c'era mio padre con Angie, Hendrix e via dicendo. Anche se mia madre quando cantava sembrava più Grace Slick ma se ne vergognava e allora lo faceva solo per divertire i suoi due figli. Scusa per questo sfogo ma quando arriva l'estate e mi scrivi di Endrigo, il dolore per la mancanza di mia madre mi toglie ancora il fiato.

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